Eutanasia: voluta da un malato terminale su diecimila
Eutanasia: voluta da un malato terminale su diecimila

Eutanasia: voluta da un malato terminale su diecimila

FONTE: ilgiornale.it 

In un quarto di secolo all’Istituto nazionale dei tumori di Milano ci sono stati solo quattro pazienti su decine di migliaia che hanno chiesto di porre fine alla loro esistenza anzitempo, ricorrendo all’eutanasia. Per tre di loro il pensiero della «dolce morte» è scomparso quando, grazie alle cure, hanno smesso di soffrire fisicamente. Nei pazienti il desidero di morire cambia nel tempo, in genere si riduce con la progressione della malattia e le scelte che si fanno da sani, racchiuse in un testamento biologico, non sono più le stesse quando ci si ammala. Scelte che comunque non ci appartengono, secondo la visione sia cristiana sia musulmana che condannano senza riserve la «dolce morte».
Al convegno «Eutanasia in oncologia: tentazione dei sani, necessità dei malati, esigenza sociale?», svoltosi ieri all’Istituto nazionale tumori di Milano, è emerso che circa il 60 per cento della popolazione «presunta sana» è favorevole a introdurre la possibilità dell’eutanasia, secondo il sondaggio Ipso condotto da Roberto Mannheimer per il Corriere della Sera nell’ottobre del 2006, ma anche che, stando alle testimonianze di medici e infermieri, la presenza di dolore non controllato è la motivazione di fondo per decidere di «staccare la spina». Risultati di studi internazionali indicano che il 6,5 per cento dei specialisti oncologi dell’American Society of Clinical Oncology sono disposti a praticarla solo in presenza di dolore «intrattabile» e che i malati di cancro negli Usa la desiderano non per se stessi, ma per parenti e amici che li circondano.
Nei casi eclatanti di Pergiorgio Welby e Giovanni Nuvoli si trattava di pazienti con patologie neurologiche invalidanti, ma quelli, tanti, colpiti da tumore? «In 25 anni, su 40mila malati oncologici seguiti nel nostro ospedale, solo in quattro ci hanno chiesto l’eutanasia», spiega Carla Ripamonti, oncologa dell’Università di Milano che all’Istituto dei tumori si occupa di terapie del dolore. «Ma in tre – precisa la specialista – hanno cambiato idea dopo che siamo riusciti a non farli soffrire. Solo una paziente è rimasta ferma nella sua richiesta e, anzi, ha tentato il suicidio. Ma era molto depressa e soprattutto temeva di diventare cieca e dover dipendere dagli altri».